1.
CELEBRARE SI CELEBRARE NO
Due giovani si incontrano, si accorgono di volersi bene e decidono di vivere insieme. Pensano che basti questa decisio ne co mune per giustificare il lo ro co nvivere , che non ci sia bisogno di celebrare, di sposarsi. Tra le varie motivazioni che li inducono a questa scelta c'è anche l'idea che i riti non aggiungono niente al loro volersi bene, non sono nient'altro che una messa in scena, dettata da tradizioni e costumi di tempi passati; determinano anzi una complicazione qualora si decida di separarsi, di ritornare liberi. Altre coppie –la maggioranza, in tutte le culture e in tutte le epoche – invece, preparano con cura il loro matrimonio come qualcosa di fondamentale per loro e giudicano che solo con una celebrazione si può iniziare a vivere insieme, solo un rito può farli marito e moglie, dà senso e valore al loro matrimonio. Ci possiamo domandare: .che cosa determina la scelta di celebrare o non celebrare? «lo non celebro il mio compleanno il giorno in cui sono nata, – disse una ragazza – ma solo il giorno in cui ho lasciato finalmente la mia casa e sono andata a vivere da sola, lontano da mia madre. Ogni anno, quando giunge quel giorno, faccio festa perché solo allora sono nata veramente». Anche qui ci domandiamo: che cosa determina il celebrare o non celebrare? Che cosa determina questo spostamento di celebrazione? Alcuni partecipano alle diverse celebrazioni per «obbligo» sociale, per «consuetudine», perché «non se ne può far a meno», cioè per costrizione, per fattori cogenti esterni alla persona... Altri invece si sentono mossi da una esigenza interiore a celebrare; i primi martiri cristiani dell'Abitilene diranno: «Noi non possiamo non celebrare il giorno del Signore». Che cosa fa sì che il celebrare venga sentito come qualcosa a cui si è costretti e di cui si farebbe volentieri a meno? e, al contrario, che cosa determina questa «necessità» interiore a celebrare? Alcuni pensano che le celebrazioni, i riti, le cerimonie, le liturgie non siano nient'altro che delle azioni inutili, improduttive, formalistiche, vuote, prive di senso, retaggio di un passato anacronistico. Sui giornali, a riguardo dell'ultima celebrazione del 25 aprile, un giornalista ha scritto che il presidente della repubblica non ha pronunciato «parole rituali», facendo intravedere che proprio perché non erano conforme al «rito» esse risultavano vive, interessanti, vere. E allora: quando una celebrazione – con tutto ciò che la costituisce – risulta un gioco vuoto, pieno di formalismi, oppure si può ritenere che sia un'azione umanamente significativa, ricca, vera, autentica? Le domande a riguardo del celebrare sono molte. Quando e perché l'uomo celebra? Quali dimensioni di sé esprime nella celebrazione? Che cosa succederebbe se non celebrasse? Da quale esigenza nasce la celebrazione: è una fuga dal reale, un mettersi al sicuro in mondi immaginari, un'affermazione della vita? Quali sono gli elementi costitutivi di una celebrazione? Perché essa si compone di riti e utilizza quel linguaggio che si chiama simbolico? Il celebrare serve a qualcosa o non è per caso tempo perso, tempo sottratto all'impegno nel mondo?
Il celebrare è solo un fattore religioso o anche semplicemente umano? Perché gli ebrei e i cristiani hanno celebrazioni che, per certi aspetti, sono diverse da quelle di altri uomini? 2.
QUANDO GLI UOMINI CELEBRANO…
Si parla di «celebrazioni ormai senza senso», vuote, insignificanti, non più attuali, che si fanno perché si devono fare, retaggio di un mondo che è difficile scrollarsi di dosso, frutto dell'abitudine. Eppure si continua a celebrare, si sente il bisogno di celebrare. Anche chi non vuol saperne di celebrare, inconsapevolmente celebra continuamente: dà la mano in segno di saluto, al bar offre il bicchierino all'amico per celebrare la gioia dell'incontro, invita a mangiare insieme per celebrare la comunione... Ciò che caratterizza una celebrazione è molto vario. Cerco di evidenziare alcuni elementi che più o meno sono presenti in molte celebrazioni, dalle più semplici alle più complesse. … ricordano Due amici che si incontrano dopo tanto tempo, si mettono a ricordare momenti della loro storia comune, oppure la vita trascorsa dal momento della separazione. La stretta di mano, l'abbraccio, le esclamazioni, l'andare al bar, il cincin, sono tanti elementi rituali che accompagnano il loro racconto, il loro «fare memoria». Ogni persona, ogni famiglia, ogni popolo ha le sue celebrazio ni che hanno come base degli eventi che vengono ricordati. Si celebra il compleanno, l'anniversario del matrimonio, il giorno della liberazione nazionale in modi molto diversi; alla base c'è sempre un fatto e il suo racconto, espresso in variegate forme verbali e rituali. «Mi ricordo che quando sei nato...» si dice spontaneamente ad un certo punto della festa; si tira fuori l'album delle fotografie... si intona una canzone che traduce in forma lirica la storia. Nella celebrazione c'è sempre la gioia del ricordare; spesso è proprio il ricordo degli eventi a determinare la celebrazione, a caratterizzarne il senso e le modalità. … indicano un inizio Alcune celebrazioni si caratterizzano per il porsi all'inizio, danno inizio a qualcosa. Ci sono le celebrazioni inaugurali del parlamento, l'insediamento del presidente della repubblica... Si celebra l'inizio della scuola o di una attività lavorativa, la festa delle matricole... Sono celebrazioni che aprono al futuro, che introducono in una situazione nuova. La storia conosce tante forme di iniziazione, talora molto complesse: si pensi a quelli che vengono detti i «riti di iniziazione»; ma basta pensare anche ai più semplici – talora banali e giocosi – quelli a cui vengono sottoposte le matricole all'inizio dell'università.
Analizzando queste forme celebrative e mettendole a confronto con tutte le altre, scopriamo che ogni celebrazione si colloca e pone di per sé sempre in un «inizio», in una nuova situazione di vita che guarda in avanti. La celebrazione stessa che avviene «in ricordo di...», cioè ha come sua ispirazione o fondamento un evento storico passato, si apre sempre al futuro, al divenire, anche la celebrazione stessa della morte. …sigillano un complimento Alla fine degli studi universitari si celebra la festa della laurea; si fa festa quando si arriva al tetto di una nuova casa, quando si va in pensione... La celebrazione si pone a conclusione di un itinerario di studi, di attività. Essa non dice semplice «fine», ma «compimento», «pienezza»: per questo si tinge di gioia, di soddisfazione, di realizzazione. A ben guardare la celebrazione pone sempre in uno stato di compimento, sia pur incoativo. … si mettono in un passaggio La celebrazione spesso avviene per determinare un passaggio. La conquista dell'indipendenza viene celebrata con un rito che indica il passaggio dalla dipendenza alla libertà della nazione. Nella vita pubblica ci sono le celebrazioni che riguardano il trapasso dei poteri, lo scambio delle consegne, il passaggio di grado o di livello. A livello personale il giovane che arriva ai 18 anni celebra una festa che sigilla il suo passaggio alla maggiore età. Le celebrazioni di passaggio segnano sempre la fine di una situazione e l'ingresso in una nuova. Ogni celebrazione porta in sé questa caratteristica di passaggio, fa da ponte tra passato e futuro, da una situazione ad un'altra più positiva, dal «non senso» al «senso»... … si impegnano La celebrazione impegna chi la compie. Nello sposalizio la coppia si impegna ad un sì che avrà varie manifestazioni, indicate dalla celebrazione stessa, civile o religiosa che sia. Anche coloro che vi prendono parte però ne sono coinvolti: di fronte ai due che si sposano essi non sono degli estranei, non possono restare indifferenti, ne divengono testimoni, compartecipi a diverso titolo, nella costruzione della loro vita coniugale. Quando si è invitati e si partecipa ad un pranzo, alla fine non si è più gli stessi. Non si può mangiare insieme ed essere nemici. Quel pasto insieme determina dei legami più o meno impegnativi. La partecipazione ad una celebrazione nazionale, di gruppo, familiare, cambia i partecipanti, li provoca ad identificarsi o a far proprio il senso della celebrazione, li accomuna, li impegna ad una azione conseguente. La celebrazione, se autenticamente partecipata, non lascia mai indifferenti,
come prima, ma coinvolge, «con-responsabilizza», impegna. … dicono si alla vita e ai valori La celebrazione nasce e si sviluppa in presenza di qualcosa di importante, di positivo. Non si celebra ogni giorno di lavoro o di scuola, ma la conclusione, il conseguimento del diploma. Chi celebra il compleanno dice sì alla vita; se avesse un giudizio negativo della vita rifiuterebbe qualsiasi celebrazione. Anche la celebrazione delle esequie è un sì alla vita; chi pensas se che tutto è finito disporrebbe di essere cremato senza alcuna cerimonia. La celebrazione non è solo una manifestazione del sì alla vita e ai valori, ma il modo più idoneo che l'uomo ha trovato per pronunciare questo suo sì. … lo fanno insieme La celebrazione è sempre una azione comunitaria. Per celebrare il mio compleanno non mi chiudo in camera, ma invito amici a festeggiare con me. C'è sempre un gruppo di persone che compie una celebrazione. E questo è un elemento importante: perché aiuta a rinsaldare il vincolo di appartenenza al gruppo, consente di sentirci e di manifestarci come comunità, di affermare i valori in cui si crede e si fonda la vita. … utilizzano un linguaggio rituale, simbolico Quando celebrano gli uomini compiono gesti, utilizzano cose, pronunciano parole in sequenze rituali e simboliche variamente organizzate. Si tratta di gesti, parole e cose che si ripetono ogni qualvolta si compie «quella» celebrazione. Il momento culmine del compleanno, ad esempio, è sempre lo spegnimento delle candeline mentre tutti cantano «tanti auguri»; il laureato viene incoronato di alloro... Gesti, cose, parole, insieme, fanno memoria, danno inizio e compimento ad eventi, significano il passaggio da una situazione all'altra, affermano la positività della vita, uniscono i partecipanti e li fanno essere una unità. In tutto questo può insinuarsi quello che viene detto «ritualismo», quando cioè gesti e parole diventano ripetizione meccanica, fredda e spersonalizzata: un linguaggio che non esprime più niente e non coinvolge più nessuno. Conclusione Quando gli uomini celebrano si raccolgono attorno ad un evento particolarmente significativo per la vita personale e sociale; la memoria di tale evento costituisce il punto aggregante, ispira ogni espressione, colora di sé i gesti, le cose, le parole. Tale memoria si pone come inizio, punto di partenza, indicatore di direzione, forza originaria. Essa anticipa gli eventi successivi, li prefigura: è caparra, primizia di ciò che avverrà e si compirà. Racchiude in sé il futuro compimento e
lo fa presagire e pregustare. Si colloca pertanto come momento di passaggio, realtà in divenire da un «già» ad un «non ancora», e impegna al presente la persona e il gruppo ad una vita conseguente, in una tensione continua verso una pienezza di vita. Per questa ragione la celebrazione è sempre affermazione di vita e di valori, è un momento sintesi e fondante, che tende a dare o ridare senso alla vita quotidiana. 3.
QUANDO I CRISTIANI CELEBRANO
Se si domandasse ai cristiani che frequentano la Messa domenicale – la principale celebrazione cristiana – il perché del loro celebrare, si potrebbero sentire risposte come queste: Si celebra perché la Chiesa lo vuole. Facendo quanto la Chiesa richiede, molti vogliono sottolineare l'importanza che attribuiscono all'appartenenza alla Chiesa stessa. La loro fedeltà a Dio passa attraverso questa forma di obbedienza, a ciò che essi chiamano «i precetti della Chiesa». Si celebra per rendere a Dio il tributo del proprio tempo. Al di fuori delle relazioni d'affari, il tempo donato a qualcuno è abitualmente la misura della nostra stima o affetto verso di lui, e il mezzo realistico per esprimere l'importanza che egli ha per noi. Del resto, in ogni vita di relazione gratuita il tempo dell'incontro è importante: permette di riconoscere l'altro, di approfondire quello che ci unisce, di superare quello che ci separa. Andare alla Messa, partecipare a una celebrazione, per alcuni significa dare il proprio tempo a Dio, manifestargli concretamente che egli è importante per loro. Si celebra per trovarsi insieme. Per un gruppo umano (famiglia, partito, club, ecc.) è vitale avere dei tempi in cui ci si ritrova, dei momenti di coesione, insomma delle occasioni per stare insieme. Alcuni cristiani, specialmente i membri di gruppi giovanili, si trovano volentieri per celebrare o perché si conoscono, come abitanti dello stesso paese, come credenti, o perché hanno lavorato insieme. Si celebra perché si ha bisogno di riti, si ha bisogno di festa. Nella vita corrente i gesti ritualizzati (ad es. il pasto) hanno grande importanza. Aiutano un gruppo a riconoscersi, danno un senso alla propria esistenza. Anche nella vita cristiana si ha coscienza dell'importanza che assumono per i credenti questi incontri ritualizzati, in cui ci si riconosce membri di una comunità di credenti e si entra insieme in relazione con Dio. L'inventario descritto non è completo. Del resto non tutte le motivazioni hanno la stessa ricchezza. La risposta più profonda si può avere solo dopo aver indagato su «che cosa celebriamo». Per scoprire in senso del celebrare cristiano rifacciamoci alla celebrazione fondamentale, quella della cena del Signore. …ricordano
Nell'ultima cena Gesù celebrò la Pasqua, non più in memoria della liberazione dall'Egitto, ma «in sua memoria»: in memoria della sua liberazione dalla morte, del suo donarsi per la «remissione» in libertà di tutti coloro che sono «schiavi», impediti in varie forme ad essere autenticamente uomini secondo il progetto di Dio. La celebrazione a cui dà inizio ha come evento ispiratore la sua passione, morte e risurrezione. Ogni celebrazione cristiana è sempre fatta in memoria di lui, del suo mistero pasquale, di tutto ciò che lui ha fatto (i vari eventi della sua vita, dalla nascita alla sua ascensione e alla sua ultima e definitiva venuta), di tutto quello che Dio ha fatto lungo la storia della salvezza. La celebrazione è memoria di tutte le gesta salvifiche di Dio: i mirabilia Dei (vedi n. 5 e 6 della Costituzione Liturgica del Vaticano Il)... Non si tratta però di un ricordare intellettuale, puramente soggettivo; il ricordare nella celebrazione rende «in qualche modo presente a tutti i tempi» l'evento ricordato, e «rende presenti» all'evento, cioè partecipi di esso (Cost. Lit: n. 102). Questo può avvenire perché il Signore risorto è sempre presente alla sua Chiesa che celebra, egli che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18,20; Cost. Lit., n. 7). È lui infatti che agisce, raggiunge e coinvolge l'uomo nella sua azione di salvezza. Caratteristiche principali della memoria cristiana sono pertanto: la presenza degli eventi di cui si fa memoria, presenza di Cristo, partecipazione dei fedeli a quegli eventi. Chi prende parte alla celebrazione cristiana diventa in un certo qual modo «con-temporaneo» di Cristo: entra nel suo tempo salvifico, oppure accoglie Cristo che salva nel proprio tempo. È questo il significato profondo di «partecipazione», «prendere parte alla sua azione»: non semplice presenza alla celebrazione, ma pieno coinvolgimento nelle azioni salvifiche che i riti significano.. …vivono gli inizi La cena che Gesù compì con i suoi prima di morire anticipò gli eventi della sua passione morte e risurrezione, come la cena pasquale in Egitto anticipò l'evento della liberazione. Quella cena sta all'inizio di tutti gli eventi successivi; la celebrazione si sgancia quasi dal tempo, lo trascende, lo precorre, fonda gli eventi e ne dà il senso. La passione-morte-risurrezione di Gesù poteva essere fine a se stessa; la sua celebrazione ci dice che è «per voi e per tutti», non solo dice (significato), ma mette anche in comunione con quegli eventi, ci fa comunicare con essi (reale partecipazione). Ogni celebrazione cristiana, facendo memoria dell'evento Cristo, anticipa ciò che verrà e apre a nuovi inizi. La stessa Eucaristia è sempre un «sacramento dell'iniziazione». Tutti i sacramenti pongono il cristiano all'inizio, aprono una via, tracciano una strada da percorrere. Il matrimonio è l'inizio del sì che troverà il suo compimento nel sì ultimo e definitivo che si dirà al progetto del Padre quando il regno sarà consegnato al Padre.
…partecipano del compimento Gesù porta a compimento l'opera sua quando sulla croce dice: «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30). Questo compimento egli lo vive e anticipa in una celebrazione. Egli siede a mensa con i suoi quando «fu l'ora» (Lc 22,14), «giunse l'ora» del compimento di tutto: proprio in quella cena «li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Nel gesto rituale di lavare i piedi egli porta a compimento il suo servire; nel dono del pane e del vino, divenuti simboli del suo corpo e del suo sangue, fa loro dono di tutto se stesso, porta a compimento quella vita che era iniziata a Betlemme e si concluderà sul Calvario; ne fa dono agli amici manifestando così che «non c'è amore più grande di quello di dare la vita per i propri amici» (Gv 15,14). Ogni celebrazione cristiana si pone sempre a compimento, è un momento di pienezza, è il «già» della salvezza, un «già» che si manifesterà nei frutti che «ancora non sono». Gli sposi che nel rito nuziale si danno la mano, simbolo dell'unione dei corpi e degli spiriti, di tutto il loro essere, vivono in Cristo la pienezza del «mio corpo offerto a te», vicendevolmente. Il gesto rituale trova i suoi «frutti» in tutte le manifestazioni di donazione e di amore: il rapporto coniugale e tutti gli altri gesti della vita comune degli sposi. …sono posti in un passaggio Nella cena con i suoi discepoli Gesù vive «il suo passaggio da questo mondo al Padre» (Gv 13,1) per rendere anche loro partecipi di questo passaggio. Egli con il suo Natale era passato dal Padre all'uomo, ora con l'uomo passa dal mondo al Padre, sapendo bene che «era venuto da Dio e a Dio ritornava» (Gv 13,3). I sacramenti dell'iniziazione cristiana sono riti di passaggio, ma ogni celebrazione si caratterizza per il «passaggio». L'aspetto più evidente è quello temporale: ogni celebrazione fa passare in un «tempo nuovo», dalla ferialità alla festa, con l'aiuto di uno «spazio nuovo», come gli Ebrei passarono dall'Egitto alla terra promessa. La celebrazione cristiana è un «passare dall'altra parte», pone sulla via, in cammino, alimenta il desiderio e la speranza, rifiuta il rimpianto del passato, gioisce per quanto sta davanti. Il fermarsi è solo momentaneo, come il concentrarsi dell'atleta sul trampolino prima del tuffo. …sono chiamati all’impegno Gesù ha celebrato la sua pasqua in un «cenacolo», in una «sa, la superiore», ma poi «è uscito fuori con i suoi discepoli», andò «oltre», «al di là» (Gv 18, 1) per dare inizio alla passione, per tradurre nella realtà quotidiana ciò che aveva vissuto nel rito; così facendo egli ha inverato il rito, lo ha fatto portatore di reale salvezza, lo ha autenticato, lo ha sigillato per sempre. Chi prende parte alla cena del Signore si lascia coinvolgere nella sua
azione, è chiamato prima ad essere e poi a fare come lui: «Se io ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato l'esempio perché come ho fatto io, facciate anche voi... Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri... Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo... tutti siano una cosa sola. Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch'essi una cosa sola» (Gv 13,14.34; 15,12; Gv 17,18). Ogni celebrazione cristiana è un momento che trasforma e abilita all'impegno, ad essere come la parola del Signore ha detto e fatto. Alla base di tante critiche alle celebrazioni cristiane sta il fatto che esse diventano «fatti di cenacolo», e non riescono a trovare la via dell'uscir fuori, dell'andare dall'altra parte, oltre. La celebrazione cristiana mette dentro, come la prima pasqua ebraica, una voglia di andare, di passare, di tradurre in realtà quotidiana ciò che si è vissuto in pienezza nel rito. La verità della celebrazione si traduce nella realtà del quotidiano; la validità della festa si riversa sul giorno feriale liberandolo. …dicono sì alla vita e ai valori Quando Gesù riunì i suoi per la cena pasquale, prima della sua passione (Lc 22,15) sapeva quello che lo attendeva. Eppure ciò che compì non fu il pianto della vita che finisce, di un'opera che viene interrotta, ma la proclamazione dell'afflizione che si cambia in gioia (Gv 16,20), una gioia piena che nessuno può mai più togliere (Gv 16, 23-24), della vittoria della vita sulla morte, della luce sulle tenebre, sul principe di questo mondo. La sua fu una celebrazione della vita: tutto parla di pienezza, di verità, di continuità. Sembra quasi che sia la celebrazione perché i suoi non si scandalizzino, non siano turbati, non perdano la fede, ma anzi vengano confermati nella verità e nell’autenticità del messaggio, siano preparati a credere nella risurrezione, ai valori dell'amore, della donazione, del servizio, della pazienza, dell'attesa... della «gloria». Ogni celebrazione cristiana è sempre un sì alla vita: alla vita che inizia, che si sviluppa e cresce, che giunge alla sua piena maturità. Anche quando si celebra la morte, tutto avviene nella fede che «io lo so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere... lo lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero» (Gb 19,25.27) …lo fanno insieme, in assemblea «Quando fu l'ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui» (Lc 22,14): al centro della cena c'è Gesù, in mezzo ai suoi come colui che serve (Lc 22,28). L'iniziativa è sua. In ogni celebrazione cristiana si trovano sempre Gesù e i suoi. Non c'è celebrazione individuale. Descrivendo la vita delle prime comunità è sempre messo in evidenza questo riunirsi per celebrare: «Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere... Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore... (Atti 2,42-46)
Da allora i cristiani non hanno mai cessato di riunirsi insieme per celebrare la Pasqua del Signore. …utilizzano un linguaggio rituale, simbolico Attraverso quei riti della pasqua ebraica e dando loro nuovo significato Gesù diede inizio ad una nuova celebrazione. Per rendere partecipi di tutto l'evento pasquale (la sua morte e risurrezione) egli utilizzò il rito del pane spezzato e del vino condiviso. Il pane e il vino divennero dei segni, dei simboli della sua presenza e della sua donazione. Il simbolo (syn-ballo = metto insieme, unisco) del pane e del vino, per la parola di Gesù e del suo Spirito, hanno messo in comunione, hanno fatto partecipi i discepoli dell'evento della pasqua che doveva compiersi. Da allora, nelle varie celebrazioni, i cristiani entrano in comunione con gli eventi della storia della salvezza, attraverso i diversi riti simbolici. I gesti, le cose, le parole che costruiscono le diverse celebrazioni cristiane per mandato di Cristo, rendono presente lui, il Signore, e la sua azione salvifica, in modo che, secondo la felice espressione di s. Ambrogio, ciò che allora fu dato nella meravigliosa realtà del presente, a noi venisse dato attraverso le Scritture e i riti. I riti, i gesti, le cose, le parole non sono semplicemente un linguaggio per comunicare un messaggio, ma testimoni di presenza di eventi, capaci di mettere in comunione vera con essi, di parteciparvi come era all'inizio. Conclusione Quando i cristiani si riuniscono e fanno memoria del Signore morto e risorto, partecipano della sua Pasqua attraverso dei riti che rendono presente il Signore risorto e la sua azione. In questo modo la celebrazione cristiana è sempre un inizio, un compimento e un passaggio che opera un cambiamento e impegna ad una azione e vita «cristiana», «pasquale». L'attore della celebrazione non è l'uomo, ma Dio; l'uomo viene reso partecipe, coinvolto, attraverso la mediazione di tutto ciò che costituisce la celebrazione. Nella celebrazione il cristiano scopre e vive la positività della vita, in quanto liberata da Cristo e può renderne testimonianza «agli altri» (Cost. Lit. n. 2).